a cura della Redazione “Ars & Cultura”


Se oggi parliamo italiano il merito è anche di Dante Alighieri. La storia è nota: il Sommo Poeta diede dignità letteraria al fiorentino adottandolo per scrivere la Divina Commedia; il poema divenne presto un best seller (per l’epoca) e il fiorentino si impose.

DALL’INIZIO. Fra il XIII e il XIV secolo non c’era ancora un’idea chiara su quale lingua standard dovesse essere usata in Italia. Al tempo la Penisola era caratterizzata e lo è ancora oggi – da una grande diversità linguistica: ogni città disponeva del proprio dialetto. E come lingua franca scritta si usava il latino o il francese. Poi però, durante la seconda metà del Duecento, nacque la scuola poetica dello Stilnovismo, i cui massimi esponenti erano toscani (a eccezione di Guido Guinizzelli, bolognese); e proprio in toscano, più precisamente in tosco-fiorentino, scrissero le loro poesie che poi circolarono ampiamente in tutta la Penisola. Ma l’avvenimento decisivo fu la nascita della Commedia, che Dante scelse di comporre in volgare fiorentino: discorrendo di vari argomenti, anche privati, il poeta introdusse nella lingua numerosi nuovi lessemi e costrutti sintattici. Il successo della Commedia fu immediato ed è testimoniato dai circa 800 manoscritti dell’opera che ci sono pervenuti, a conferma che quanto meno entrò nelle case di tutti i dotti italiani. Grazie a questo straordinario successo fu evidente che nello scrivere in volgare, in Italia, non si poteva più prescindere dal fiorentino.

E IL SICILIANO? Eppure la prima scuola poetica italiana “parlava” un altro dialetto, il siciliano. Siamo alla raffinatissima corte dell’imperatore Federico II (1220-1250) nella prima metà del 1200. L’Italia, dopo circa due secoli di ritardo rispetto a quanto era avvenuto in Francia con il provenzale, produsse la propria letteratura in volgare. E lo fece utilizzando quello che oggi è considerato un dialetto, il siciliano, anche se comunque si trattava di una lingua letteraria, con molti influssi dal latino. I poeti alla corte di Federico erano molti: tra gli altri, l’inventore del sonetto, Jacopo da Lentini. La nascita e il perentorio successo della scuola poetica siciliana fu talmente importante in termini storici e linguistici, che il siciliano avrebbe potuto tranquillamente essere oggi la nostra lingua nazionale. Ma le mire del papa e le ambizioni dei sovrani francesi cambiarono le carte in tavola: il pontefice, in contrasto con gli svevi, chiamò in aiuto il francese Carlo d’Angiò, che scese in Italia, sconfisse gli eredi di Federico II e si impadronì del Sud della Penisola spazzando via anche la splendida corte che era stata dello Stupor Mundi e dei suoi successori, Corrado IV (1250-1254) e Manfredi (1254-1266).

IL PACIFICATORE. Metabolizzato il successo della Commedia, in un primo momento sembrò riemergere l’uso del latino classico (in letteratura e nella diplomazia) a discapito del neonato italiano. Fu una fase passeggera. Già nella seconda parte del Quattrocento il volgare tornò infatti a proporsi. Già, ma quale? In pieno Rinascimento questo fu un dilemma che coinvolse i letterati di tutte le corti italiane. La diatriba su quale volgare standard adottare – la cosiddetta “questione della lingua” – fece litigare gli intellettuali della Penisola, perché nessuna corte era disposta a rinunciare al proprio volgare. Finché arrivò un cardinale veneziano, Pietro Bembo (1470-1547), e mise tutti d’accordo.

VOLGARE, LINGUA LETTERARIA. Nei primi anni del Cinquecento, Bembo iniziò una collaborazione con l’umanista Aldo Manuzio (1449-1515), il più importante editore dell’epoca. Curò per lui sia l’edizione della Commedia sia quella del Canzoniere del Petrarca, unendo a tali attività uno studio personale sul Decameron di Boccaccio. L’operazione si rivelò proficua per entrambi: «Manuzio, grazie a Bembo, poté aprirsi alla letteratura in volgare, stampando edizioni che rimasero insuperate per molto tempo», spiega Daniele Baglioni, docente di Storia della lingua italiana all’Università Ca’ Foscari di Venezia. «Invece Bembo, grazie a Manuzio, poté impadronirsi a pieno del fiorentino dei grandi trecentisti e proporlo come modello di lingua letteraria comune». Bembo trascrisse le sue idee linguistiche nel testo più importante della storia della lingua italiana: Le prose della volgar lingua, pubblicato nel 1525. Qui, fra le altre cose, suggerì agli intellettuali l’imitazione, in poesia, di Petrarca, e, in prosa, del Decameron. L’operazione fu vincente: il veneziano proponeva un concetto caro al Rinascimento, quello dell’imitatio dei grandi autori, che risultava possibile anche perché la scrittura di Petrarca e Boccaccio era facilmente riproponibile. Dopo questo successo il fiorentino del Trecento – ormai a tutti gli effetti considerato italiano – si impose in letteratura senza che fosse più messo in discussione.

IDEALISTI. Nell’Ottocento, con il Risorgimento, si impose l’idea patriottica di Dante come padre della lingua italiana, con l’aggiunta di Petrarca e Boccaccio a costituire il canone fondamentale della nostra letteratura. Ma proprio mentre veniva riconosciuta a Dante la paternità dell’italiano, un altro padre si affacciava sulla scena letteraria, quell’Alessandro Manzoni che, con I promessi sposi, fece una vera e propria rivoluzione, producendo delle novità che ancora oggi caratterizzano il nostro idioma. Eppure all’epoca l’italiano era ancora una lingua solo scritta: all’Unità d’Italia, nel 1861, solo il 2,5 per cento della popolazione lo parlava regolarmente. Il Regno d’Italia (1861-1946) si pose come obiettivo di rendere l’italiano lingua nazionale. Ma non fu la scuola a riuscirci, come sperato dai ministri del Regno: ci vollero due guerre mondiali, la radio, il cinema e soprattutto la televisione. Fu grazie a quest’ultima che negli Anni Sessanta si completò il processo dell’unificazione nazionale a livello linguistico. Dopo sei secoli di tribolazioni, finalmente tutti gli italiani parlavano la stessa lingua.

Fonte : “FocusStoria