a cura di Luciana Gennari


La depressione è una malattia riconosciuta legalmente che può garantire l’astensione retribuita dal lavoro.

La depressione è una condizione che, una volta diagnosticata, è equiparata per legge a qualsiasi altra malattia e pertanto offre al lavoratore le stesse garanzie.

Questa equiparazione si traduce nel diritto all’astensione dal lavoro con retribuzione, a condizione che la patologia sia riconosciuta come un ostacolo alle attività lavorative dal medico curante. In questo articolo vedremo come ottenere i giorni di malattia sul lavoro per depressione.

Analizzeremo anche come gestire la depressione sul lavoro.

Difatti, la comprensione di questa malattia, soprattutto nella sua forma maggiore che presenta sintomi intensi come tristezza profonda, perdita di interesse, pensieri negativi, variazioni di peso e disturbi del sonno, è fondamentale per affrontare il suo impatto sul contesto lavorativo.

Quanto tempo si può essere in malattia per depressione?

Il periodo di malattia concesso per la depressione varia a seconda della gravità del caso specifico e viene definito dal medico curante sulla base di una visita che deve essere necessariamente effettuata di persona.

È anche possibile ottenere prima un’attestazione da parte di una struttura pubblica come il CIM dell’ASL.

Il dipendente a cui venga diagnosticata una depressione può quindi assentarsi dal lavoro ma non deve tuttavia mai superare il cosiddetto “periodo di comporto “, ossia il tempo massimo di assenza durante il quale non si può essere licenziati. Superato il comporto invece il datore di lavoro può procedere alla risoluzione del rapporto di lavoro.

La durata del comporto è stabilita dal contratto collettivo nazionale (CCNL), salvo che per gli impiegati per i quali il termine è:

  • fino a 3 mesi di comporto per chi ha meno di dieci anni di anzianità;
  • fino a 6 mesi di comporto per chi supera i dieci anni.

Come richiedere l’assenza dal lavoro per depressione?

Se si sospetta di soffrire di depressione e si necessita di astenersi dal lavoro, la procedura prevede i seguenti passaggi:

  • prima di tutto, è necessario informare il datore di lavoro, preferibilmente il superiore diretto o il reparto HR, della propria situazione e anticipare che ci si dovrà assentare (il CCNL può prevedere specifiche modalità di comunicazione dell’assenza);
  • successivamente, si deve contattare il medico curante entro il giorno dell’assenza o al massimo nei due giorni successivi, per ottenere un certificato medico che sarà inviato telematicamente all’INPS;
  • infine, il numero di protocollo del certificato, fornito dal medico, va comunicato al datore di lavoro per formalizzare il periodo di assenza.

La depressione può essere causata dal lavoro?

In alcuni casi, la depressione può essere direttamente correlata alle condizioni lavorative.

Fattori come lo stress lavorativo, un ambiente di lavoro tossico o il mobbing possono essere determinanti.

In queste situazioni, il lavoratore potrebbe avere diritto al risarcimento del danno da parte dell’INAIL e, nel caso in cui la misura da quest’ultima versata dovesse essere inferiore al danno effettivamente patito, dal datore di lavoro per la residua parte.

Tuttavia, è cruciale poter dimostrare:

  • il fatto che ha determinato lo stress;
  • il danno alla salute;
  • il legame causale tra le condizioni di lavoro e il manifestarsi della patologia per accedere a tali benefici.

Percentuale invalidità per depressione

La valutazione dell’invalidità per disturbi psichici si basa su criteri ben definiti che considerano l’impatto della patologia sulla capacità lavorativa e sulla vita quotidiana dell’individuo.

Le percentuali di invalidità vengono stabilite da commissioni mediche che esaminano il caso specifico, avvalendosi di linee guida stabilite a livello nazionale.

L’INPS riconosce l’indennità d’invalidità ordinaria esclusivamente se la riduzione della capacità lavorativa è superiore a 2/3, ossia al 67%. Inoltre il richiedente deve avere maturato almeno 5 anni di contributi, di cui almeno 3 nell’ultimo quinquennio.

A tali condizioni è possibile ottenere l’assegno d’invalidità civile.

Vediamo qui di seguito, per ciascun disturbo depressivo, quali sono le percentuali di invalidità previste dalla legge:

  • sindrome depressiva endoreattiva lieve: caratterizzata da una reazione a eventi stressanti, con sintomi gestibili, viene valutata con una percentuale di invalidità del 10%;
  • sindrome depressiva endoreattiva media: son sintomi più marcati che influenzano la vita quotidiana, la percentuale di invalidità assegnata è del 25%;
  • sindrome depressiva endoreattiva grave: in questi casi, la sintomatologia severa limita significativamente le attività quotidiane, giustificando una percentuale di invalidità compresa tra il 31% e il 40%;
  • sindrome depressiva endogena lieve: questa forma di depressione, meno influenzata da fattori esterni, comporta un’invalidità valutata al 30%;
  • sindrome depressiva endogena media: la gravità media di questa condizione comporta un tasso di invalidità tra il 41% e il 50%;
  • sindrome depressiva endogena grave: le forme gravi di depressione endogena, che richiedono spesso interventi complessi, sono associate a una percentuale di invalidità tra il 71% e l’80%;

Ora vediamo le percentuali di invalidità per i disturbi di nevrosi:

  • nevrosi fobico ossessiva lieve: valutata al 15%; questa condizione comporta ansie e paure che, pur presenti, permettono una relativa funzionalità.
  • nevrosi fobico ossessiva e/o ipocondriaca di media gravità: questa categoria riceve una percentuale di invalidità tra il 21% e il 30%, riflettendo un impatto moderato sulla vita quotidiana;
  • nevrosi fobico ossessiva grave: con una valutazione tra il 41% e il 50%, questa condizione implica un serio deterioramento della qualità di vita;
  • nevrosi ansiosa: caratterizzata da ansia cronica, viene valutata al 15%, considerando l’impatto sulla capacità di affrontare le attività quotidiane;
  • psicosi ossessiva: questa forma grave di disturbo nevròsico comporta un’invalidità valutata tra il 71% e l’80%, riflettendo un’incapacità significativa di gestire le funzioni quotidiane.

Come difendersi dal mobbing sul lavoro?

Il fenomeno del mobbing sul posto di lavoro rappresenta una realtà preoccupante nel panorama lavorativo contemporaneo, caratterizzato da tensioni continue, ansia, stress e un generale senso di disagio che rende l’ambiente lavorativo insopportabile per il lavoratore.

Il mobbing si riferisce a una serie di comportamenti negativi e persecutori sul posto di lavoro, che possono essere perpetrati dal datore di lavoro (mobbing verticale) o dai colleghi (mobbing orizzontale).

Questi comportamenti includono rimproveri ingiustificati, demansionamento, esclusione da formazioni e iniziative aziendali, fino alla non assegnazione di compiti. Tali azioni hanno l’obiettivo di isolare il lavoratore e indurlo a lasciare il lavoro.

Le ripercussioni del mobbing non sono limitate a un semplice disagio psicologico. I lavoratori possono sviluppare serie patologie psichiche e danni psico-fisici, che vanno dall’ansia e attacchi di panico a malattie più gravi che possono colpire l’apparato cardio-circolatorio, compromettendo gravemente la salute dell’individuo.

Sebbene non esista una specifica normativa che definisca e sanzioni il mobbing, la giurisprudenza italiana ha sviluppato strumenti di tutela efficaci per i lavoratori vittime di tali comportamenti.

Il lavoratore può intraprendere un’azione di risarcimento danni nei confronti del datore di lavoro, basandosi sull’art. 2087 del codice civile, che impone al datore di lavoro l’obbligo di tutelare l’integrità psico-fisica e morale dei propri dipendenti.

Tuttavia, per ottenere il risarcimento del danno bisogna dimostrare non solo un ambiente stressogeno e i comportamenti vessatori del datore ma anche l’intento di questi, a fronte di tutte queste condotte, di isolare e danneggiare il dipendente.

Sul piano penale, il datore di lavoro o i colleghi responsabili di mobbing possono essere perseguiti per il reato di maltrattamenti (nel caso di piccoli contesti aziendali) e lesioni personali qualora i loro comportamenti abbiano causato malattie al lavoratore.

Inoltre, se i comportamenti persecutori sono ripetuti nel tempo, si può configurare il reato di stalking, secondo l’art. 612 bis del codice penale, che tutela l’individuo da atti che generano ansia, paura o costringono a modificare le proprie abitudini di vita.

FONTE : https://www.laleggepertutti.it/ – 30 Gennaio 2024 – Autore: Angelo Greco


Luciana Gennari

Nata a Roma il 7 febbraio 1953Vive a Roma

Persona con Disabilità per Ischemia cerebrale. Mamma di tre ragazzi. Raffaello: il figlio dell’amore, il figlio del desiderio e il figlio della scelta. Simone il figlio del desiderio ha una gravissima disabilità dalla nascita. Francesco il figlio della scelta, di anni 30, con patologia schizofrenica (malattia invisibile), morto il 26 novembre 2021. Già Presidente della Consulta per i Diritti delle Persone con Disabilità – Municipio IX ROMA EUR – Comune di Roma, dalla sua istituzione nel 1999 ad oggi, fino alla morte del proprio figlio. In questa Rubrica si potrà parlare di disabilità motoria, sensoriale, intellettiva e mentale, perché farlo dà la possibilità a chi ci circonda di confrontarci ed aiutarci. Sarà un impegno prezioso per un gesto di servizio e di solidarietà autentica.

Email: luciana.gennari53@gmail.com

Cell: +39 3358031152