di Pippo Ferraro


Gianni Bugno è un dirigente sportivo ed ex ciclista su strada italiano. Professionista dal 1985 al 1998, fu campione del mondo su strada nel 1991 e nel 1992. In carriera ottenne 72 vittorie. Si aggiudicò nove vittorie di tappa al Giro d’Italia, nonché il successo finale nel 1990, oltre a quattro tappe al Tour de France e due alla Vuelta a España; fece inoltre sue una Milano-Sanremo, un Giro delle Fiandre, una Milano-Torino e un Giro dell’Emilia.

Considerato, insieme a Laurent Jalabert, uno degli ultimi corridori in grado di competere ai massimi livelli sia nelle classiche di un giorno sia nelle grandi corse a tappe di tre settimane: grazie alla sua versatilità, Bugno fu in grado di vincere gare a cronometro, tappe di montagna e con arrivo in volata, partecipando sempre a tutte le più importanti competizioni ciclistiche della stagione. Tra il 1990 e il 1991 fu inoltre numero uno della classifica mondiale UCI.

Il corridore, italiano ma nato a Brugg (Svizzera) nel 1964, fece il suo grande exploit alla Milano-Sanremo con un attacco sulla Cipressa, che lo vide concludere in solitaria con il tempo medio più alto nella storia della corsa. Si tratta di uno dei tanti record di questo corridore atipico. Nella Coppa del Mondo di quell’anno, l’italiano era il favorito. Era il minimo che ci si potesse aspettare da uno che si arrampicava con i migliori ed era capace di vincere le volate in piccoli gruppi. La novità di quell’anno fu il luogo: la competizione si tenne per la prima volta in Asia, precisamente in Giappone. Un Paese in ascesa e pronto a organizzare la Coppa del Mondo di uno sport non profondamente radicato, ma che rappresentò la prima onda d’urto dell’internazionalizzazione del ciclismo.

In Giappone, l’Italia di Bugno subì una delle sconfitte più umilianti. I gregari Ballerini, Cenghialta e Cesarini sono entrati nella fuga di giornata, ma quando i fuggitivi raggiunsero i sei minuti di vantaggio, il resto della squadra azzurra iniziò a tirare il gruppo, creando una situazione kafkiana. La fuga fu ripresa e nell’ultimo giro gli attacchi si susseguirono. Fu in uno di questi che una strana coppia di corridori belgi, formata da Rudy Dhaenens e Dirk De Wolfque, andò via in solitaria, corridori che pur non avendo un curriculum eccezionale, realizzarono una storica doppietta grazie alla loro grande intesa.

A otto secondi di distanza, Gianni Bugno vinse lo sprint di gruppo in modo inattaccabile e vide la corsa scivolare via sotto i suoi occhi. Quel bronzo aveva solo il sapore dell’amarezza per non aver vinto l’oro e lasciava intravedere uno dei grandi problemi che la Nazionale italiana aveva da sempre: la gestione dell’ego titanico tra i suoi campioni. Chi non ha mai giocato questa partita è stato Gianni Bugno, un aspetto che è diventato noto al grande pubblico, anche se non è chiaro se questo sia di qualche utilità per un campione sportivo. Era un personaggio più introverso e timido.

UN ANNO MAGICO
Nel 1991, Bugno ebbe una stagione sensazionale, nonostante al Tour de France si trovasse di fronte la figura che lo avrebbe eclissato in futuro: l’altrettanto tranquillo e riservato Miguel Indurain. Tuttavia, Bugno non mollò, dopo essere arrivato a un soffio dalla vittoria del Tour. Trionfò nella Classica di San Sebastián e arrivò alla Coppa del Mondo di Stoccarda da favorito, una gara che era completamente diversa da quella in Giappone sia per il percorso che per la tattica. L’Italia, attraverso Guido Bontempi, fece il passo in gara in modo molto serrato fino alle ultime due emozionanti curve della corsa. A due chilometri dalla vetta della Fernsehturm, la torre delle telecomunicazioni che domina tutta la città, Bugno lanciò il suo contrattacco. Col suo caratteristico stile, attaccò in un modo che non aveva nulla a che fare con la tipica andatura da scalatore. L’italiano impose un ritmo molto intenso e in costante aumento – gli piaceva pedalare a un ritmo elevato e a una bassa cadenza – che fece sì che il gruppo si frammentasse e che alla fine solo Indurain e l’olandese Steven Rooks potessero seguirlo, raggiunti solo dal giovane talento colombiano Álvaro Mejía nel primo tratto della discesa. Tutti gli occhi erano puntati sull’italiano e sullo spagnolo, anche se la squadra biancorossa non aveva mai vinto una Coppa del Mondo. Sul rettilineo d’arrivo, il favorito lanciò lo sprint a duecento metri dall’arrivo, passando per il centro, per poi scivolare leggermente e impedire un tentativo di rimonta da parte di Indurain. Alla fine, entrambi i campioni smisero di pedalare e i festeggiamenti anticipati di Bugno gli fecero quasi perdere la Coppa del Mondo a favore di Rooks. Appena tagliato il traguardo, intervistato dal leggendario giornalista RAI Adriano de Zan, ammise: “Forse ho festeggiato troppo presto, ma mi dica lei se oggi non è il giorno di alzare le braccia…”. Aveva battuto Indurain e questo gli dava grandi speranze per il 1992, che sarebbe stato il suo grande anno. Tuttavia, tutto andò storto. In Italia fu pesantemente criticato per non aver preso parte al Giro e concentrarsi sul Tour. Non sentendosi a suo agio con questa pressione e con tutto ciò che suggeriva un carico di responsabilità, si presentò al Tour de France dopo aver corso una sola corsa a tappe, il Giro di Svizzera, dove arrivò secondo in classifica generale. Iniziò il Tour con la missione di vincere la corsa per un Paese che non vinceva l’evento più famoso del ciclismo dal 1965, e finí per svanire all’interno del gruppo. Il colpo iniziale della cronometro del Lussemburgo lo fece affondare. Nonostante il terzo posto a Parigi, non sarebbe più tornato sul podio di un grande giro. Ecco un altro degli strani record di questo corridore di impulsi ed emozioni: è l’ultimo corridore ad essere salito sul podio del Tour con la maglia iridata. Sconfitto e umiliato – perché il terzo posto non è nulla quando si arriva a quasi undici minuti dal rivale generazionale – arrivò ai Mondiali di quell’anno rimanendo nell’ombra poichè il vincitore del Giro e del Tour correva in casa.

BENIDORM, L’ANTI-CLIMAX
Nell’ambito dei Campionati del Mondo del 1992, il Campionato del Mondo si svolse a Benidorm. Il risultato fu una gara dalle dubbie ricadute turistiche per un marchio cittadino già noto, ma che fu salvata da una delle migliori volate della storia della manifestazione. Bugno rimase in fondo al gruppo per tutta la gara, fino a quando non cercò di creare una fuga al penultimo passaggio. Almeno era in gara, sospirò qualcuno. Indurain provò ad andare in fuga sull’ultima salita, ma non ci fu nulla da fare contro una squadra francese molto potente che arrivò con cinque corridori sul litorale di Levante a Benidorm. Jean-François Bernard, il corridore Banesto di Indurain, lanciò la volata per Jalabert, un corridore che aveva firmato per la squadra ONCE quell’anno e che era in forma ma non aveva ancora ottenuto una vittoria importante. Iniziò ad accelerare a ottocento metri dal traguardo, una distanza selvaggia allora, oggi e sempre. Giancarlo Perini, che di mestiere faceva il ciclista, aveva convinto il taciturno Bugno a seguire la sua ruota. Lo lasciò alle spalle del francese e a centocinquanta metri dall’arrivo Bugno prese il comando, fece centro, vinse la sua seconda Coppa del Mondo consecutiva e divenne il primo italiano a riuscirci.

Aveva battuto di nuovo Indurain, che arrivò sesto. I sintomi notati a Stoccarda divennero ancora più evidenti. Alla cerimonia di premiazione, Bugno era assente, non troppo contento. Beppe Conti, un veterano giornalista italiano, gli chiese se fosse stato squalificato o se la giuria tecnica gli avesse detto qualcosa: “No, no, niente affatto, sono solo triste per aver battuto Indurain qui, dove lui giocava in casa”. Nessuno sospettava, neanche lontanamente, che questa sarebbe stata la fine della carriera di Bugno come corridore nei Mondiali. Le sue due vittorie sono rimaste la massima espressione di un corridore irripetibile, con un palmarès eclettico che ha portato a questi strani record, e che si completano con quest’ultimo: a distanza di più di un quarto di secolo, è ancora l’ultimo corridore ad essere Campione del Mondo dopo aver vinto un grande giro, e non prima. Una semplice statistica? No, la dice lunga sul tipo di ciclista che era, con classe dentro e fuori dalle competizioni. Almeno in questo è stato all’altezza di Indurain.

Fonte : “rouleur” – articolo di Sergio Palomonte