di Felice Nicotera


Ripercorrendo la storia apprendiamo che la peste, il colera, il vaiolo, la malaria e la sifilide, sono state malattie che hanno sempre terrorizzato le popolazioni e procurato grandi stermini. Chi non ha ancora nella mente le pagine della secentesca peste manzoniana? La decimazione per peste dell’esercito ateniese nel Peleponneso o delle popolazioni e degli armati cinesi e l’influenza Spagnola (perché scoppiò nella penisola iberica) che fece più vittime della prima guerra mondiale tra il 1917 e il 1918, la polio e la tubercolosi. Sull’epidemia di colera del 1836 nel Regno delle Due Sicilie, scrive Gigi Di Fiore (Il Mattino,15 marzo 2020): “Il colera era apparso nel 1817 in India, poi si era esteso in Asia e Europa dalla Russia nel 1830. La diffusione fu rapida: Polonia, Ungheria, Germania, Inghilterra e Parigi nel 1831 per arrivare nel regno sardo-piemontese a Nizza e Cuneo nel 1835. Poi la penetrazione nel resto di quell’Italia preunitaria: Torino, Genova, Livorno, Venezia, Roma e Napoli. Nelle Due Sicilie, dove il morbo divenne una tragedia, i primi casi apparvero il 2 ottobre 1836. Due furono le ondate di contagio nella capitale delle Due Sicilie: dall’ottobre 1836 al marzo 1837 e dall’aprile all’ottobre 1837. Le cifre sui morti sono documentate all’Archivio Borbone. Nella prima fase i morti furono 5669 su 10361 ammalati. Nella seconda fase, 14mila su 22mila ammalati. Ma è un calcolo minimo che esclude migliaia di vittime. De Renzi parla di oltre 30 mila morti. L’otto agosto 1835, per contenere l’epidemia già comparsa nel nord Italia, il re Ferdinando II di Borbone controfirmò il regolamento del governo che fissava «discipline già sperimentate salutari ne’ paesi travagliati dal cholera». Ci fu una «Istruzione popolare» curata dal Supremo magistrato di Salute: «nettezza delle strade e delle case pubbliche e private sì nelle città, sì nelle piccole terre». Nella capitale, in ogni quartiere e rione si crearono commissioni di controllo coordinate da una commissione centrale. Le commissioni dovevano controllare il rispetto delle norme igieniche, evitando disordini. Quando l’epidemia si diffuse, fu vietata la sepoltura dei cadaveri nelle chiese. I defunti erano portati nel nuovo cimitero chiamato poi «sepolcreto dei colerosi», realizzato in fretta dall’architetto Leonardo Larghezza in un’area di ottomila metri quadrati. Per evitare i contagi, fu raccomandato che gli ammalati e i morti di colera venissero subito dichiarati per essere sepolti con rapidità nel cimitero a spese del governo.

A Napoli, l’epidemia si diffuse di più negli affollati e malandati quartieri popolari. Molti denunciarono i «troppi mendicanti» e i commerci incontrollati di alimenti. L’epidemia fece anche la sua vittima più illustre: Giacomo Leopardi”. Napoli conoscerà altre quattro epidemie di colera nell’Ottocento, prima e dopo l’Unità d’Italia: 1854-55, 1865, 1873 e 1884. Oggi ci si ammala nelle zone meno sviluppate del mondo e si muore nell’ordine di decine di migliaia di persone l’anno, come accade nello Yemen investito dalla guerra.

A Napoli il colera si è ripresentato anche in tempi recenti. È accaduto nel 1973 con un bilancio finale di 24 morti e 278 casi tra Ferragosto e la prima metà di ottobre. Imputato principale, i frutti di mare pescati in un Golfo avvelenato dagli scarichi.