a cura della Redazione Spazio Interattivo


I tedeschi vincono, contro un’Argentina impresentabile, la finale più brutta della storia. E la squadra più bella, l’Italia di Schillaci, è solo terza. Bilancio in negativo per Italia 90: poco gioco e pochi spettatori, per il calcio un vistoso passo indietro.

I quarti propongono agli azzurri la sorpresa Irlanda. Sul piano dei valori tecnici, tornando oltretutto al suo posto Donadoni, il confronto è improponibile, ma si sa che non esistono ai Mondiali ostacoli facili. L’andamento della partita lo conferma, rivelando le prime crepe nell’impianto di gioco azzurro: fa caldo e molti giocatori sono al quinto impegno in ventidue giorni.

A sorpresa, Charlton sguinzaglia i suoi in attacco, rompendo il riserbo tattico fin qui sempre rispettato e riuscendo a sorprendere gli uomini di casa. I lunghi lanci disorientano Baresi, in difficoltà nel gioco aereo, Zenga deve volare per fermare un poderoso colpo di testa di Quinn. Superato lo sbandamento iniziale, gli azzurri si riappropriano del gioco e poco dopo la mezz’ora sguainano l’affilatissima spada Schillaci: Bonner respinge a mani aperte un siluro di Donadoni dal limite dell’area, Totò dal limite dell’area piccola riprende al volo insaccando con un rasoterra nell’angolo opposto. Nella ripresa, ancora il bomber siculo colpisce la traversa con una terrificante sassata. Andrebbe ancora in gol allo scadere, su perfetto assist in contropiede di Baggio, ma l’arbitro fischia un inesistente fuorigioco. Non si può certo dire che i direttori di gara abbiano un occhio favorevole alla squadra di casa.

Come ci riesca, non è facile spiegarlo, ma l’Argentina va ancora avanti. Trascinata dal genio di Prosinecki, la Jugoslavia nei quarti le impartisce una lezione di gioco, nonostante l’espulsione di Sabanadzovic dopo mezz’ora, senza tuttavia riuscire a concretizzare la propria superiorità. Inevitabile il ricorso alla roulette dei rigori, da cui arrivano le più palpitanti emozioni di questi Mondiali. A sorpresa, spadellano i big: Stojkovic colpisce la traversa e Maradona si fa parare il tiro dal bravissimo Ivkovic. Troglio colpisce il palo, poi sale al proscenio Goycochea, che neutralizza i tiri di Brnovic e Hadzibegic e porta i suoi in semifinale.

Più netta di quanto non suggerisca il punteggio la vittoria dei tedeschi, protagonisti di una prova arrembante contro una Cecoslovacchia al lumicino. Matthäus trasforma un rigore per fallo su Klinsmann, Hasek salva tre volte sulla linea e solo un micidiale tiro di Bilek su punizione, ben neutralizzato dal bravo Illgner, testimonia la presenza offensiva degli uomini di Venglos.

Profondamente ingiusto il passaggio del turno dell’Inghilterra, strapazzata per quasi tutta la partita dal dominio dei sempre più sorprendenti “leoni indomabili” del Camerun. Calcio di qualità, occasioni da rete a getto continuo, ma anche un certo narcisismo sono il biglietto da visita degli africani, gelati da un gol di Platt, che inchioda N’Kono di testa sul primo affondo inglese, una discesa di Pearce. Nella ripresa entra il solito Milla, che subito si procura un rigore per fallo di Gascoigne, trasformato da Kunde, e manda in gol Ekeke con una magica invenzione. Gli africani sprecano a getto continuo, gli inglesi colgono il pari: fugge l’asso ritrovato Lineker, Massing lo stende in area e lo stesso superbomber trasforma. Ai supplementari, di nuovo Lineker in area, N’Kono lo fa volare e poi raccoglie il pallone in fondo al sacco sul tiro dal dischetto.

Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare: nel proclama dello “spaccone” Luca Vialli alla vigilia dei quarti sta racchiusa la grande delusione azzurra in semifinale. Il protagonista mancato delle notti di Italia ’90 reclama il proprio posto ricorrendo alla celebre frase di John Belushi. Sparito il malanno (prolungato per vie diplomatiche), vuole tornare in campo. Una tracheite lo blocca il 27 giugno, Vicini resiste contro l’Irlanda, ma raccoglie il messaggio e se ne fa condizionare: diviso tra la consapevolezza di dover far tirare il fiato a qualche protagonista e l’opportunità di non modificare un meccanismo perfettamente funzionante, opta per una terza via, destinata a rivelarsi perdente. Conferma infatti dieci undicesimi della formazione, ripescando Vialli per escludere Baggio.

Lo muove la suggestione di quella frase, che pare confezionata ad hoc per le incognite “climatiche” della sfida. Ricorda Beppe Bergomi: «Eravamo a Napoli, Diego Maradona aveva preparato ad arte la partita, stuzzicando i tifosi del Napoli: vi ignorano tutto l’anno e adesso vi chiedono aiuto per sostenere la Nazionale. Entrammo in campo per il riscaldamento, sentimmo qualche applauso, ma anche una certa freddezza. Una parte dei tifosi era con l’Argentina di Diego, noi eravamo abituati al clima magico dell’Olimpico a Roma, una simbiosi con la gente che ci dava un’enorme fiducia e patimmo il contraccolpo».

Quando Vautrot fischia l’avvio, si capisce subito che non è la stessa Italia. La stanchezza affiora prepotente, la manovra non scorre fluida, eppure il gol arriva dopo pochi minuti ed è proprio Vialli a propiziarlo, con un gran tiro di destro che Goycochea neutralizza sui piedi dell’implacabile Schillaci. La polveriera del San Paolo, anche se non all’unisono, esplode. Per l’Italia dalla difesa ancora inviolata sembra fatta: l’Argentina non ha fin qui quasi mai esibito una efficace forza offensiva. La partita si trascina con poca storia, sospesa tra l’appagamento degli stanchi azzurri, privi delle accelerazioni in fantasia di Roberto Baggio, e l’impotenza degli argentini, privi di una accettabile manovra offensiva. Così arriva il fatale minuto 67′: cross di Olarticoechea da sinistra, Zenga esce in ritardo e a Caniggia, tutt’altro che un gigante, basta sfiorare il pallone di testa anticipando Ferri per cogliere il pari.Il primo errore difensivo di tutto il Mondiale costa una punizione tremenda.

Gli azzurri non reagiscono, Vicini tenta di smuovere le acque sostituendo Vialli con Serena, poi Giannini con Baggio, ma ormai le squadre sono sedute. E se dopo le prodezze di Goycochea sui rigori jugoslavi appare logica l’attesa della lotteria dei penalty da parte degli argentini, è meno facile spiegare perché mai vi si disponga a cuor leggero l’Italia, peraltro profondamente scorata causato dal gol di Caniggia.

Quando finalmente termina l’inutile processione dei supplementari, prolungata di cinque minuti da un Vautrot completamente in barca, il destino si compie. Goycochea si conferma, neutralizzando Donadoni e poi Serena, mentre Zenga non batte chiodo. Come già nella finale dell’Europeo Under 21, Vicini si arresta a undici metri dal traguardo. Dopo, tutti l’avranno detto: che sarebbe bastato inserire Vierchowod e il fresco Ancelotti, o non togliere sul più bello il matchwinner Baggio. La realtà però non cambia, il sogno mondiale dell’Italia nel Mondiale di casa svanisce malinconicamente. Nonostante il vistoso calo rispetto al Messico, Maradona porta di nuovo una truppa di mediocri alla finale.

Il Mondiale agli estrogeni economici, gonfiato di partite, è un cane che si morde la coda. Agli appuntamenti decisivi arrivano squadre stanche, dominate dall’obiettivo di risparmiare il più possibile le residue energie, mentre chi ha rallegrato il pubblico nelle prime partite inciampa uscendo di scena. Il difensivismo esasperato appare l’antidoto migliore all’usura. Lo conferma la semifinale tra tedeschi e inglesi, potenzialmente una sagra dello spettacolo di grande calcio agonistico, nella realtà paralizzata dalla paura per tutto il primo tempo. Nella ripresa, qualche timido approccio offensivo e finalmente i gol. Punizione di Brehme, deviazione di Parker in barriera e Germania in vantaggio. L’Inghilterra cerca di svegliarsi, entra Steven per lo stopper Butcher, ma l’assalto appare sterile. A salvare Robson interviene un pasticcio di Kohler in area, su cui piomba rapace Lineker a trafiggere Illgner con un gran sinistro. Il resto è attesa dei rigori. Dal dischetto Pearce si fa parare il tiro, Waddle spara fuori e la Germania per la terza volta consecutiva è in finale.

«È stato un bel sogno, grazie lo stesso»: uno degli striscioni con cui il San Nicola di Bari pavesato a festa saluta gli azzurri di Azeglio Vicini riassume il clima della finale di consolazione, forse mai come in questa circostanza onorata sul piano del gioco e pure della partecipazione popolare. L’apprezzamento della gente stimola gli azzurri, mandati in campo da Vicini con parecchi ritocchi. Il Ct azzurro si converte in extremis alla difesa a cinque, sostituendo Ferri con Vierchowod e aggiungendo lo stopper Ferrara al posto di De Agostini, avanzato a tornante a sostenere, con Ancelotti, la regia di Giannini. In avanti, la coppia d’attacco regina del torneo, colpevolmente scissa in occasione della semifinale di Napoli.

E sono proprio Baggio e Schillaci a onorare la prova azzurra, di fronte all’Inghilterra di Robson falcidiata dalle assenze (innanzitutto Gascoigne) ma ugualmente stimolata dalla cornice. La partita è ricca di emozioni, ma solo nel finale arrivano i gol. Prima è Baggio a chiudere una efficacissima azioni in area inglese: il fantasista ruba il palione a Shilton che lo atterra, ma non c’è tempo di protestare, Schillaci piomba come un falco sulla sfera, scherza in tunnel Walker, dribbla Shilton e appoggia a Baggio, lesto a sua volta a eludere il recupero di Parker insaccando. Dieci minuti dopo Platt di testa trasforma un cross di Dorigo dalla sinistra. Chiude un rigore concesso da Quiniou per un atterramento in area di Schillaci da parte di Parker: lo stesso Totò trafigge Shilton, conquistando lo scettro dei cannonieri. Nel finale Berti, entrato al posto di De Agostini, trafigge di testa Shilton su millimetrico lancio da trenta metri di Baggio, ma Quiniou annulla per inesistente fuorigioco. Per la prima volta l’Italia è terza in un Mondiale. Spettacolare pure il dopo gara, con una inedita “ola” delle due squadre, accomunate dal pubblico in un lungo e caloroso abbraccio. Vince il calcio, ma all’Italia restano soprattutto i rimpianti.

Piange, Diego Armando Maradona, e sussurra con le labbra un insulto amplificato in mondovisione: hijos de puta. Piange mentre il pubblico dell’Olimpico, sulle note dell’inno nazionale argentino, scatena una disdicevole gazzarra a base di fischi e insulti per i “colpevoli” dell’eliminazione dell’Italia. Una pagina poco edificante, cui dà un robusto seguito la partita, rivincita della finale di quattro anni prima. Beckenbauer la affronta con l’ormai consolidato schema “a cinque”: davanti a Illgner, Berthold e Brehme sulle fasce e al centro Kohler e Buchwald davanti al libero Augenthaler; a centrocampo, Matthäus regista, con Littbarski e Hässler a sostegno offensivo e Völler e Klinsmann di punta. In realtà, dedica Buchwald a Maradona e per il resto bada a chiudere ogni varco, mentre l’obiettivo di Bilardo appare fin troppo chiaro: approdare ai calci di rigore. I biancocelesti confermano la difesa a cinque organizzata dal Ct dopo la sconfitta inaugurale con Camerun: davanti a Goycochea, Simon libero, Sensini e Lorenzo (sostituto di Olarticoechea) sulle fasce, Serrizuela e Ruggen centrali; a centrocampo, Troglio in regia, con Burruchaga e Basualdo ai lati; in avanti, Maradona sulla trequarti e Dezotti unica punta, isolatissima.

I tedeschi, stanchi, non vogliono rischiare, gli argentini, consci della propria inferiorità, pensano solo a difendersi. Così si spiega un primo tempo privo di spunti tecnici e una ripresa che segue a ruota. La finale più spaventosamente povera della storia dei Mondiali si trascina tra intenzioni dilatorie e cautissime avanzate tedesche, concretate in una serie di improbabili traversoni in area, dove si ostacolano Völler e Klinsmann. Finché sale in cattedra l’arbitro Codesal, degno rappresentante della componente peggiore della manifestazione. Alla vigilia della quale, a confondere le idee ai direttori di gara, è intervenuto l’emergente segretario generale della Fifa, Sepp Blatter, dettando direttive inedite e particolari per la repressione del gioco duro, con l’espulsione prevista per il fallo da dietro e la negazione fallosa di una chiara occasione da gol.

Risultato: una clamorosa disparità di giudizio, con i fischietti più meritevoli ma meno disposti ad accettare le nuove regole (in primis l’italiano Agnolin) prontamente epurati e i più ligi portati fino in, fondo. Non stupisce insomma che lo scarso arbitro Codesal, designato a sorpresa, decida la partita, dopo aver espulso Monzon per due fallacci su Klinsmann. Prima il fischietto resta muto su un clamoroso atterramento di Dezotti in area, poi fischia quando Sensini entra in scivolata sul pallone nell’altra area, togliendolo a Völler che cade. Brehme dal dischetto non trema davanti allo specialista Goycochea, che intuisce tuffandosi sulla destra, ma non può fermare la botta. L’ulteriore espulsione di Dezotti chiude virtualmente la partita. La cui raccapricciante bruttezza lascia a tutti l’amaro in bocca. Per il calcio è un vistoso passo indietro.