a cura della Redazione di Spazio Interattivo

  Botticelli non è animato dalla “semplice”, poetica sensibilità di Giotto, né dalla sensibilità serafica e celestiale dell’Angelico né, tanto meno, dalla sensibilità per tanti versi drammatica del giovane Masaccio: il suo universo pittorico comprende e abbraccia estremi difficilmente rinvenibili nelle successive e pur sublimi opere dei più grandi maestri, neanche in Raffaello, in Leonardo e, forse, neppure in Michelangelo. Questi ultimi, pur toccando i vertici dell’arte pittorica e, nel caso di Michelangelo, anche scultoria, si sono fermati sulla soglia della descrizione del “visibile meraviglioso“, fatta soprattutto – si direbbe – per stupire. Botticelli, invece, valica questa soglia. Con la forza di un filosofo antico, “interroga” l’osservatore, lo pone alle strette. Infatti, questi, al cospetto – per esempio – di quel tempio di pura bellezza che è la sua “Nascita di Venere”, se è stato in grado di riprendersi dall’incanto di quella visione, per pacificarsi l’animo, corre, non appagato, a sfogliare le pagine della mitologia, alla ricerca dei significati criptici di quell’immagine.

E la medesima fenomenologia si ripropone per altre opere, in primis, per la “Primavera”: lo stupore che si innesca a prima vista, quando non si trasforma in stordimento da godimento estetico, fa gemmare, non solo nell’animo dei più eletti, sentimenti di schietta curiosità indagatrice. Ed è quest’aspetto che fa di Botticelli un “pittore-filosofo”: egli dialoga con l’osservatore, anche a distanza di secoli, e, come un superstite Socrate, continua a porgergli non risposte spurie ma domande infinitamente aperte sulla bellezza, disseminata sul mistero della vita.
Da questo punto di vista, lo “sguardo” di Botticelli si squaderna su una verticalità impressionante: la sua immaginazione scorre e si manifesta su una linea che unisce la terra e il cielo, anzi – alla maniera di Dante – l’abisso della Terra e la profondità del cielo, l’Inferno e il Paradiso. Ne sono eloquente testimonianza i disegni nonché la mappa del suo “Inferno” da un lato e, dall’altro, la “Natività mistica”. L’“Inferno” è la rappresentazione drammatica dell’orrore e della dannazione cui sono condannate le anime “prave”, conclusione logica (si potrebbe dire), oltre che metafisica, di una vita terrena trascorsa nel vizio e nel peccato. La “Natività mistica” ne diviene il controcanto, per il credente e per tutti gli uomini di buona volontà.
Quest’opera si staglia, così, come la controfacciata della mappa infernale: all’imbuto tenebroso dell’“Inferno“ si contrappone la luce serena di una rappresentazione anch’essa concepita a mo’ di mappa, questa volta celestiale. Il dipinto è, sostanzialmente, l’illustrazione dell’episodio cruciale dell’incarnazione di Cristo, con i personaggi che non smettono di raccontare all’umanità e in eterno il miracolo del Natale, la discesa sulla terra di Chi vi è stato inviato “in missione“. Il gruppo centrale dell’opera, fermato nell’iconografia più tradizionale, di tipo pressoché medioevale, pur rappresentando la “scena madre“ del dipinto, si slarga in una visione prefigurante l’auspicio che alberga nel cuore dell’insegnamento evangelico, l’“amicizia“ finale tra Terra e Cielo, tra Umanità e Divinità, così come il Libro della Rivelazione la preconizza:
 
“Ecco la dimora di Dio con gli uomini!
Egli dimorerà tra di loro
ed essi saranno suo popolo
ed egli sarà il “Dio-con-loro”.
 E tergerà ogni lacrima dai loro occhi;
non ci sarà più la morte,
né lutto, né lamento, né affanno,
perché le cose di prima sono passate”. (IV, 3-4)

 
Il genio dell’allievo prediletto di Filippo Lippi raggiunge in questo contesto il suo apice. Al carosello degli angeli in cielo, gloriosamente festanti in un tripudio di ramoscelli d’olivo, corone e nastri svolazzanti, corrisponde un immaginario cerchio in terra che fa capo alla Sacra Famiglia e indulge in un incontro di tipo molto ravvicinato, con baci e abbracci di comunione, tra angeli e uomini virtuosi (cinti i capi di corone d’olivo e, perciò, “laureati”). Auspice il “lieto evento” della nascita del divino Bambino, una commozione indicibile sommuove l’intero universo (qui rappresentato dalla terra e dal cielo) e gli angeli si promuovono messaggeri di pace universale, che, come in un impossibile e pur vero “congresso”, sottoscrivono con l’umanità redenta il definitivo protocollo della riconciliazione universale. Mai era stato pronunciato un discorso più grande, pardon, mai era stato raffigurato, né mai sarà rappresentato, un auspicio più “metanoico“: il cielo, grazie all’intercessione divina, bacia la terra, tutto si ricompone secondo un ordine primordiale. Persino la natura, nel dipinto rappresentata dagli alberelli, che, come un colonnato berniniano, recingono la Grotta, partecipa a questa pacificazione universale per la gloria nell’alto dei cieli e per la pace tra gli uomini in terra.
La Grotta, sì la novella Chiesa appena “inaugurata”, ha nel fondo un’apertura, a mo’ di finestra e proietta la sua luce anche sul lato retrostante a significare l’onnidirezionalità della buona Novella. Davanti, su questo primo “sagrato” e sotto un “protiro” ligneo, contro qualsiasi legge prospettica (e, in questo frangente secondo la più tipica iconografia medievale), torreggia, in intima e materna contemplazione, la Vergine, vestita di regale fulgore e ammantata di celeste divinità, intanto che il suo Bambino mostra la pienezza della sua vitalità, volgendosi verso di Lei e già tradendo la forza escatologica della sua presenza.
Mentre il bue e l’asinello fanno il loro dovere, nella loro indefessa indifferenza, Giuseppe, accovacciato ad uovo, è preso nel torpore di una stanchezza forse insostenibile.
A sinistra, sullo stesso piano, impavidi Re Magi, guidati da un angelo in rosa, si prostrano riconoscendo il Sovrano Bambino e, omaggiandoLo da par loro, propaleranno, inviati specialissimi, la notizia del miracoloso evento a tutto il mondo.
A destra, dirimpettai, due pastori si genuflettono e  ad  uno di questi un angelo in bianco volge la testa verso la grotta quasi a sollecitarlo ad osservare, ammirare e non più dimenticare ciò che vedono i suoi occhi: l’umanità più semplice è presente, pronta e in prima fila ad accogliere e ospitare il Redentore.
In primissimo piano, tre coppie di figure, bene auguranti, celebrano, in simbiotiche pose e ornate di festosi cimeli, l’attesa Venuta e, insieme, l’insperata, ecumenica riappacificazione. Gli angeli, di bianco, verde e rosso vestiti, rispettivamente deputati a rappresentare le virtù teologali della Fede, della Speranza e della Carità, paiono gli stessi discesi dalla sommità della capanna, lì dove, tutti e tre sorreggendo un corale, intonavano l’inno natalizio della glorificazione e della pacificazione.
Nascosto negli anfratti delle rocce, in forma di piccoli diavoli, il male, al cospetto di cotale avvenimento, si sotterra momentaneamente sconfitto.
 
Quest’opera racconta, nella suggestione d’immagini sostenute da colori vibranti di luce, il genio di Botticelli, il quale, pur non abbandonando completamente i canoni della pittura medievale (rispetto del principio gerarchico delle figure, piani perlopiù sbalzati frontalmente e in parallelo, prospettiva di proposito accantonata) realizza “il” capolavoro, che, per forza di contenuti e di messaggi, supera la “Nascita di Venere” e la “Primavera”: è un lascito testamentario non sempre riconosciuto e considerato.
Botticelli, dunque, ha interrogato l’abisso con le illustrazioni del suo “Inferno” e si è posto in ascolto del divino: due operazioni solo apparentemente antitetiche perché fuse nell’unico intento di capire il mondo e l’uomo, quel mondo soprattutto, che, ai suoi tempi, pur così gravidi di presenze e opere geniali(*) si prestava agli estri avventurosi della politica(**).
Tutto ciò, forse, è il proscenio invisibile dal quale è scaturito il prodigio della “Natività mistica”, mistica per la complessità della sua simbologia e per la dimensione del sacro verso cui il Botticelli invoca la contemplazione di chi la osserva.

Fonte : “news-art” – articolo di Luigi Musacchio


Le pubblicazioni di “Natale In … Arte – ed. 2023”

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