a cura di Fabio Reggiani


Le mie frequenti tonsilliti mi obbligavano ad assentarmi spesso dall’ asilo ed in seguito anche dalla scuola elementare. Trascorsa la canonica settimana di febbre alta, anche oltre i 40 °C, il giorno prima del presunto ed atteso rientro a scuola mio Padre, l’ Ing. Tito Reggiani, se il tempo atmosferico lo consentiva mi portava con sé in VOXSON per farmi mettere il naso fuori di casa tenendo sotto costante controllo il mio stato di salute durante l’ intera mattina.

Arrivati in fabbrica dovevo puntualmente affrontare la mia infantile ritrosìa per il grosso montacarichi posto sulla destra dell’ ingresso allo stabilimento.
Come tutti gli elevatori industriali anche quello non era altro che un ampio cubo di metallo color grigio-topo privo di due paratìe laterali opposte per consentire le operazioni di carico e scarico.
Eppure solo sentendomi prender per mano da mio Padre trovavo il coraggio di entrare in quel cupo ed enorme ascensore che, partendo, lasciava scorrere velocemente davanti ai miei occhi timorosi la muratura nuda e cruda nell’ attraversamento dei piani dell’ edificio come in risalita dall’ abisso di un pozzo.
Poi finalmente mi ritrovavo dinanzi al luminoso corridoio degli uffici del “Reparto Esperienze” che dava accesso al vasto laboratorio nel quale Ingegneri e Tecnici si muovevano agilmente in un fruscìo di camici immacolati.
Io passavo il tempo immerso in letture e compiti da svolgere; talvolta giocavo con i pulsanti luminosi del monumentale telefono “Safnat” collocato sulla scrivania dell’ ufficio di mio Padre. Al termine della mattinata rincasavamo: mia Madre con le sue premure, il pranzo, lo studio pomeridiano, i miei giochi e qualche medicina all’ occorrenza.
Ma per me bambino VOXSON era in effetti anche in casa una presenza familiare: il suono cristallino della musica classica che proveniva dal salone, il “lavoro di Papà”, qualcosa di cui essere fanciullescamente orgoglioso senza neppure saperne con precisione il motivo, persino l’ occasione di pavoneggiarmi nello spiegare a chiunque che il nome VOXSON scaturiva da una intrigante alchimìa operata sulle due parole latine vox (voce) e sonus (suono).
Erano i primi anni ’70 ed io naturalmente nulla sapevo di nomi quali Piccinini, EMI, Ortolani… P2!
Imparai poi, quando in adolescenza strappai via con amarezza dalle pareti della mia stanza i tre poster a colori delle autoradio VOXSON Mod. “Imola”, “Montecarlo” e “Long Beach”.
La VOXSON non c’ era più! Nel mio animo tradito restava senso di abbandono ed un lutto da elaborare.

Ma evidentemente quella fabbrica aveva già prima permeato il mio inconscio infantile con una fascinazione agrodolce che da allora è riaffiorata con forza nel bel mezzo di questa mia età adulta al punto da spingermi a ricordare, indagare, ricostruire e comprendere una vicenda nelle cui pieghe si identifica il paradigma stesso della parabola industriale italiana: la ricostruzione post-bellica, il boom economico ed infine i miasmi tossici, anzi mortali, di una imprenditorìa mìope spesso capace solo di inganni e di torbidi intrighi di palazzo.

A dispetto delle sorti aziendali l’ edificio della VOXSON è rimasto intatto; persino quel montacarichi così temuto dal bimbo che fui ancora oggi funziona sebbene da molti decenni non movimenti più materie prime né prodotti finiti. Un mattino, dopo la scomparsa di mio Padre, ebbi occasione di accedervi in un silenzio surreale: alla pressione del pulsante di salita fui magicamente veicolato a ritroso nel tempo. Allora mi abbandonai ai ricordi lasciando che fosse lei, la bellissima VOXSON, a rapirmi nella sua suggestione.

Al di là della “storia ufficiale”.